Ciao mamà
Rifugiati nei paesi spopolati delle Dolomiti
In Cadore, sulle montagne, la comunità accoglie i richiedenti asilo. Nelle casette dei paesi spopolati sulle Dolomiti orientali, arrivano giovani africani, afghani e pachistani che puliscono le strade, falciano l’erba, riparano le recinzioni. Piccoli gruppi di rifugiati, ospitati nelle frazioni e nei comuni. Seguono corsi professionali, lavorano per imparare un mestiere. E’ la strategia di accoglienza diffusa della Cadore Scs, aderente a Legacoop e Confcooperative. Oggi, i rifugiati partecipano a progetti di riqualificazione degli orti e provano a far nascere una coltivazione sperimentale di carciofi alpini insieme ai disabili. Nella radice celtica del nome “Cadore”, c’è anche il significato di “battaglia” e “roccaforte”. E’ un territorio difficile. La crisi dell’industria dell’occhiale è stata dura. Ma qui si sperimenta l’amicizia tra montanari del Nord Italia, subsahariani e orientali. Grazie al lavoro di rete di una cooperativa di comunità che si ispira ad un modello di accoglienza diffusa con case a Perarolo, Domegge, Lozzo e Valle di Cadore.
Testo, foto, video ed editing a cura di Angela Zurzolo @cooptelling
SU MENO DI 20 ABITANTI, 4 SONO AFRICANI - Quando la incontrano per strada, la chiamano “mamà”. Costantina ha i capelli bianchi e da poco ha dei vicini di casa africani. Dalle onde sui barconi, sono arrivati sani e salvi fino alle pendici innevate dell’Antelao. Molti hanno ancora l’incubo della Libia negli occhi. Ma qui c’è la montagna a proteggerli dai ricordi.
A Vallesina ci sono meno di venti abitanti. E tutti conoscono la casetta vicino al fiume in cui vivono i quattro migranti ospitati dalla cooperativa Cadore. Kamara è uno di loro.
E’ AMICIZIA TRA DUE FALEGNAMI - Quando sei mesi fa è arrivato qui- in questo paese “molto molto tranquillo”, come dice scherzando - Kamara ha subito fatto visita al suo vicino. Fabio si è affacciato alla finestra e si è trovato di fronte lui, con gli occhi puntati sulla porta della carpenteria. Nel suo Paese, Kamara era un falegname. Come suo padre. E grazie all’amicizia con Fabio, socio della cooperativa di comunità, è potuto tornare a lavorare il legno. E a mostrare orgoglioso i telai per la tessitura che sta realizzando per i bambini della scuola di Belluno.
IQBAL, UN LAVORO E UN APPARTAMENTO - Dall’Afghanistan, in aereo, fino in Iran. E poi a piedi attraverso la Turchia, la Bulgaria, la Serbia, l’Ungheria e l’Austria, passo dopo passo, via terra, fino a Perarolo, un Comune di 380 abitanti. Iqbal, 26 anni, una moglie e due bimbi ancora in Afghanistan, ha attraversato il continente. I soldati italiani, nel suo paese, vicino Kabul, “erano buoni” – dice- e davano matite e quaderni ai bambini. Anche ora che è in Italia, racconta, ha trovato persone pronte ad aiutare gli altri.
Divide con solo un altro migrante l’appartamento offerto dal Comune, composto da cucina, salotto con televisore, camera doppia con mobili nuovi e bagno.
Iqbal lavora tutti i giorni nella manutenzione del verde e nel tempo libero gioca a pallavolo con l’amico con cui ha condiviso il viaggio a piedi. Anche se ha qualche difficoltà a trovare altri componenti per la sua squadra, in un paese in cui i giovani sono pochi.
“WIFE AND WI-FI”: i richiedenti asilo scherzano e riassumono così i loro bisogni. La cooperativa ha provveduto al wi-fi, anche se alle volte ci sono problemi di connessione. Ma qualcuno ha davvero trovato moglie o fidanzata in Cadore.
Come il ventitreenne Daouda. Abita nel centro di accoglienza, quello di Pieve, che ospita attualmente il numero di giovani più elevato: 18, tutti africani, in un ex convento che si sviluppa su tre piani, concesso in comodato d’uso dalla Diocesi di Belluno. “Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è qui. Vestiti, scarpe: sono in magazzino. E se non hai qualcosa, chiedi alla cooperativa e loro ti portano ciò di cui hai bisogno” spiega. E’ tra i quattro rifugiati che, grazie a Garanzia Giovani, dopo un percorso formativo, faranno un tirocinio in cooperativa. Tra gli altri ospiti del centro di accoglienza di Pieve, anche altri hanno frequentato corsi professionali per imparare ad utilizzare le macchine agricole o lavorare nella manutenzione del verde. Alcuni hanno anche contribuito, a titolo volontario, a ripulire la pista ciclabile che porta alle Dolomiti.
“Tendenzialmente cerchiamo di creare gruppi di accoglienza omogenei, per etnia, per lingua e per religione, per questo qui nell’ex convento ci sono prevalentemente africani. A tutti chiediamo di autogestirsi e offriamo la possibilità di frequentare la scuola e di partecipare ad attività di volontariato” spiega Monica Argenta, responsabile del progetto di accoglienza.
SIMBIORTI, DISABILI E RIFUGIATI LAVORANO SUI CAMPI - Dopo dieci anni di abbandono, le terre attorno all’ex convento di Pieve di Cadore tornano a nuova vita grazie all’impegno dei richiedenti asilo che vi sono ospitati e a dei disabili. Sono nati un orto, un frutteto e un pollaio con alcune galline che devono essere ancora battezzate e che, probabilmente, dopo una attenta riunione, riceveranno tutte nomi africani e asiatici, nonostante le proteste di chi aveva proposto quelli dei soci della cooperativa.
“Quello che colpisce di più è che sorridono sempre, nonostante le difficoltà attraversate” racconta Marco, un volontario che ha seguito l’intero progetto sui campi. Da poco è stata anche attivata una coltivazione sperimentale di carciofi alpini, grazie alla cooperativa, ad un contributo della Fondazione Cattolica Assicurazioni e alla collaborazione con la Fondazione Edmund Mach.
ACCOGLIENZA DIFFUSA “L’accoglienza in piccoli gruppi funziona” racconta Luca Valmassoi, responsabile accoglienza profughi. “E’ più dispersiva e problematica perché richiede più risorse e personale ma paga in termini di integrazione e di gestione del clima interno delle case. Solo così si può dare un miglior servizio ai richiedenti asilo e alle comunità”. Non è certo semplice reperire nuovi alloggi sparsi nei comuni da affittare ai richiedenti protezione internazionale. Anche quando sono disabitati. Perché la diffidenza è ancora tanta e ad alcuni non basta la garanzia della cooperativa. Così, in alcuni casi, non vogliono concedere gli appartamenti in affitto.
UN PICCOLO AFRICANO CADORINO – Ma una comunità coesa aiuta ad affrontare meglio anche gli imprevisti. Come quando la Cadore Scs ha dovuto inaspettatamente ospitare per la prima volta anche delle donne e andare a recuperare in tarda serata a Mestre sei persone- fortunatamente tre coppie- arrivate dal Sud Italia. “Siamo riusciti a sistemarli in degli appartamenti tutti per loro. Una di queste donne era in dolce attesa e dopo qualche mese è nato un piccolo nigeriano cadorino di nome Roberto” racconta. La gente si è mobilitata subito, riempiendo la cooperativa di doni per il piccolo.
"Li abbiamo anche spostati in un appartamento puù confortevole ma poi hanno fatto la scelta di proseguire il loro viaggio", spiega Luca, che ricorda tutti i nomi dei migranti che sono passati da qui dal 2011, anno dell'intensificarsi della crisi libica, ad oggi.
CADORE SCS - La Cadore Scs- 152 soci, diversi svantaggiati- lavora per creare opportunità di lavoro e per favorire l’economia del territorio, operando su più fronti. L’accoglienza dei richiedenti asilo è solo l’ultimo dei servizi cui si è aperta. Manutenzioni ambientali e ingegneria naturalistica, global service, e soprattutto una lunga esperienza nel turismo di comunità: gestisce su concessione del Comune anche il Centro polivalente e risto bar “La Tappa”, nato sulla pista ciclabile “Lunga via delle Dolomiti”. Qui, gli anziani che giocano a carte dell’apertura della comunità locale ai migranti sembrano essere soddisfatti. “Mi hanno detto, tu sei anziano, lascia che ti aiuti io a fare questo lavoro”, racconta un signore che gioca a briscola con l’amico e il cane accucciato ai suoi piedi.
COOPERATIVE DI COMUNITA’ Le cooperative di comunità sono forme di impresa ancora in divenire, normate in Italia solo in alcune aree da alcune leggi regionali. Diversamente accade all’estero, in Francia con le S.C.I.C. - société coopérative d’intérét collectif - e in Gran Bretagna con le C.I.C. - le community interest company, come spiega la guida Cooperative di comunità di Legacoop 2016.
Per Claudio Agnoli, fondatore della cooperativa, “La montagna non ha bisogno di spot, di link, di eventi o slogan”. E dice: “Noi abbiamo bisogno di progetti di lungo periodo. E quindi ha valore il concetto di “cooperativa di comunità” se viene interpretato come un progetto di lungo periodo in cui i territori pensano se stessi e organizzano forme di risposta, di lavoro e di servizio, in forma comunitaria. Ma non con un pensiero passatista. Non ci può essere una idea passatista del ritorno della comunità. Ci deve essere una idea in cui, a fronte delle trasformazioni che non rendono più competitive le dimensioni che eravamo abituati a vedere dentro gli Stati nazionali e dentro l’organizzazione produttiva fordista, dobbiamo guardare avanti e pensare che nella dimensione globale e nella dimensione continentale europea, l’Europa non è fatta di vecchie architetture istituzionali come gli Stati, le regioni, le province e i comuni. Ma di un continente con dei territori e dei luoghi che sanno pensarsi e autoorganizzarsi. In questo senso deve rinascere un nuovo pensiero di comunità per stare nel mondo e nell’Europa e non per difendere un’identità stupida”.
RASSEGNA STAMPA
Sole 24 Ore, 08 06 2016, “Accoglienza diffusa” in Cadore. Rifugiati nei Paesi spopolati delle Dolomiti - Andrea Gagliardi
Sole24Ore, 08 06 2016, Video, Rifugiati nei paesi spopolati delle Dolomiti - Angela Zurzolo
Sole 24 Ore, 09 06 2016, I rifugiati vengono accolti nei paesi delle Dolomiti, in Cadore - Serena Sartini
RDS, 10 06 2016, I rifugiati vengono accolti nei paesi spopolati delle Dolomiti, in Cadore
Telebelluno, 14 giugno 2016, “Migranti nel Bellunese, dal Cadore una storia di integrazione
Vita.it, 05 07 2016, “La montagna è più accogliente? Sì e vi spiego perchè”, di Sara De Carli